Giornata della Memoria

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Come si conserva la memoria? Cosa scegliamo di ricordare, e a cosa ci serve?

L'anno scorso, in occasione della Giornata della Memoriaabbiamo intervistato il regista israeliano Barak Heymann, autore di un documentario sulla vita e le opere dello scultore Dani Karavan, noto per le sue monumentali opere commemorative.
Nel documentario, l'artista si confronta con il senso della politica della memoria e i rischi della sua strumentalizzazione. Non solo la "manutenzione" della memoria è faticosa e richiede una cura costante, ma Karavan sembra anche dirci: che cosa ne farai del ricordo? Come ti ispirerà ad agire e a parlare di fronte agli avvenimenti dei tuoi tempi?

Per continuare a riflettere su queste domande, abbiamo deciso di proporvi alcuni contributi sullo straordinario film "La zona d'interesse" di Jonathan Glazer, che sarà proiettato venerdì 31 gennaio alle ore 20:45 presso il Cineteatro Qoelet di Redona.
Le recensioni che trovate qui sotto ci sembrano preziosi spunti di riflessione sui temi morali, prima ancora che storici, che il film propone: stiamo anche noi nelle nostre bolle, nei nostri giardinetti, nelle nostre "zone d'interesse", facendo finta di non guardare quello che succede anche oggi al di là di un muro?

Internazionale
La zona d’interesse svela l’orrore di ieri e di oggi di Francesco Boille

Quando un’ossessiva regolarità si avvicina alla rassicurante monotonia del meccanismo perfettamente efficiente, esprime a lungo andare qualcosa di terribile e mostruoso: all’indomani dell’arresto di Nelson Mandela, Robert Kennedy, in uno dei suoi discorsi più celebri, ricordò agli studenti sudafricani bianchi dell’università di Città del Capo che il culto dell’efficienza aveva portato ai campi di concentramento nazisti. Oggi siamo di nuovo nel culto dell’asettico efficiente. E chi è attratto da questa ideologia estetica, che respinge dal campo visivo tutto quel che non è piano e privo di increspature e, di conseguenza, esprime odio e paura verso tutto quel che la contraddice, tutto quel che è diverso? Soprattutto odio nei confronti del diverso? Ovviamente la persona più comune, banale. Noi tutti, potenzialmente.
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Lucy sulla cultura
Ne “La zona di interesse” l’Olocausto è un rumore insopportabile di Lorenzo Grammatica

Vorremmo sbirciare oltre il muro che delimita il campo, stare con le vittime, solidarizzare con loro, ricordare la loro sofferenza, restituire loro dignità, ma anche semplicemente guardarle – l’atto del guardare come fine – e c’è in questo desiderio una componente morbosa per quelle immagini capaci di appellarsi al nostro voyeurismo, che ci attraggono solo per respingerci.
Susan Sontag, nel saggio Davanti al dolore degli altri (nottetempo), scriveva che il “desiderio di immagini che mostrano corpi sofferenti”, è “forte quasi quanto la bramosia di immagini che mostrano corpi nudi”. Quel particolare tipo di desiderio è fonte di tormento, di angoscia. Queste immagini crudeli, per Sontag, ci provocano, chiedendoci: riuscite a guardare? In chi lo fa prevale un senso di soddisfazione, chi non ci riesce prova il piacere di essersi tirato indietro.
Il film di Glazer ci mette in una posizione scomoda, quella di dover resistere non alla tentazione di guardare, ma alla voglia di voler vedere di più.
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Mosaico: rivista della comunità ebraica di Milano 
di Pietro Baragiola

A differenza di altri film sull’Olocausto, la trama de La zona d’interesse si concentra sui carnefici piuttosto che sulle loro vittime. “Riconoscere Rudolf ed Hedwig come esseri umani è stata la parte più terrificante dell’intero processo di creazione del film” ha spiegato Glazer. “Il nostro obiettivo era quello di mostrare che tutti noi abbiamo più cose in comune con i colpevoli di quanto ci si possa aspettare”.
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Vogue
La zona d'interesse è un’opera d’arte che parla di noi più di quanto vorremmo di Corinne Corci

Sul palco dei Bafta, il produttore del film, James Wilson, ha parlato di empatia selettiva, disegnando un parallelo tra il film sull’Olocausto tra i più belli che siano mai stati prodotti (lo ha detto anche Steven Spielberg) e la guerra tra Israele e Palestina. «Un amico mi ha scritto dopo la visione del film dicendomi che non può più fare a meno di pensare ai muri che costruiamo intorno alle nostre vite per evitare di vedere dall’altra parte. Questi muri non sono nuovi né sono solo quelli riferiti alla tragedia dell’Olocausto».
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Portale della Chiesa di Milano
di Gabriele Lingiardi

Si è dibattuto molto, in sede critica, su come il film dimostri la banalità del male. Forse il punto è un altro però: anche chi compie il male assoluto possiede quel desiderio di pace e di normalità di cui priva le altre persone. [...] 
Tra gli enigmi del finale e un andamento riflessivo e angosciante, La zona di interesse si propone come un’esperienza di visione. O meglio, di non visione. Ci pone, da spettatori, nella condizione di voltare costantemente gli occhi dall’altra parte. Lo sguardo stesso del film non ha il coraggio di superare quel muro. Così ci rendiamo conto che far finta di niente, vivere la propria vita come se niente fosse, ignorando le tragedie o addirittura sostenendole, è un atto profondamente disumano. Ieri, come oggi. È la quotidianità del male.
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Conferenza episcopale italiana
della Commissione Film

Con La zona d’interesse Glazer svela con lucidità non solo la “banalità del male”, ma anche il suo cinismo sconfortante e tossico. Mostra il punto più basso, anzi più fosco, dove l’uomo si è saputo spingere, accecato da arroganza, egoismo e follia. Un film acuto, magnifico per regia, stile narrativo come pure per gli attori, gli ottimi Sandra Hüller e Christian Friedel. La zona d’interesse è un film da vedere, rivedere, condividere come proposta educativa per la custodia della memoria. Complesso, problematico, per dibattiti.
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Avvenire
Oltre «La zona d'interesse» la confessione del pentito Höss che salvò padre Lohn di Massimiliano Castellani 

La città natale del futuro papa Wojtyla, poi san Giovanni Paolo II, ospitò gli ultimi giorni dell’Animale di Auschwitz-Birkenau che nella sua cella si trovò a fare i conti con la sua coscienza. Quella del battezzato cattolico che, come ultimo desiderio, chiese di potersi confessare. E come confessore voleva soltanto un uomo, colui che gli ricordava di essere stato “umano” e un degno cattolico nei suoi 47 anni di vita: padre Wladyslaw Lohn. Segno divino, il gesuita era il cappellano del convento delle suore della Misericordia di Wadowice e alla chiamata del condannato a morte non esitò a presentarsi. Un altro film, ora Glazer potrebbe girarlo sulle ultime ore di Höss, quelle in cui si pentì di tutti i mali commessi e chiese il perdono all’unico uomo sul quale non aveva sprigionato la follia omicida nazista.
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Società psicoanalitica italiana 
di Alessandra Meneghini

È proprio la paura, incarnata dal vagare notturno nelle stanze della casa della figlioletta degli Höss, che introduce l’elemento perturbante nella quieta e appagante vita familiare. Un’angoscia infantile apparentemente inspiegabile che si insinua silenziosamente nella villetta con la complicità del buio, quando i bei fiori del giardino non si vedono e quando le voci familiari tacciono, rendendo più friabile il muro della scissione tra interno ed esterno. Un’angoscia-segnale quindi, da tacitare prontamente con la lettura delle favole, controparte simbolica e sintomatica di un altro segnale, rappresentato da quel fumo che sale dai camini del campo accanto, silenzioso testimone dell’ecatombe in atto appena oltre il muro di cinta, che tutti guardano, ma che nessuno vede.
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Associazione cattolica esercenti cinema (SPOILER ALERT)
di Lorenzo Pierazzi

Il campo di sterminio rimane zona off limits, mai mostrata. Proprio per questo, voltando idealmente lo sguardo dall’altra parte, l’innocenza dello spettatore sembra garantita, e invece le grida dei soldati e delle vittime, il rumore dei forni crematori in azione, i colpi dei fucili che abbattono come animali i deportati penetrano dritti al cuore, senza lasciargli scampo. Fino alle ultime inquadrature in cui il film ci lascia in eredità un messaggio sconvolgente. Siamo ai giorni nostri e le donne delle pulizie stanno lustrando con cura le vetrine del museo di Auschwitz che accolgono capelli, scarpe, valige, effetti personali delle vittime. Una manutenzione per niente partecipe, asettica. Cosa significa tutto questo? Forse che l’uomo sarà sempre capace di rendersi impermeabile all’orrore?
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