Gerusalemme. Opposti radicalismi soffocano la pace

Condividi su

Riccardo Redaelli
11 maggio 2021
@Avvenire.it


Gerusalemme ha vissuto ieri una drammatica accelerazione delle violenze, un ulteriore segnale che il deterioramento dei rapporti israelo-palestinesi, nel pressoché totale disinteresse internazionale, sta spingendo i due popoli sullo scivoloso crinale di un nuovo possibile confronto generalizzato.

Il 'Jerusalem day', che celebra la conquista israeliana nel 1967 della parte est di quella città sacra a così tante religioni (tuttora ritenuta illegittima dalle Nazioni Unite), è sempre stata occasione di scontri e di provocazioni reciproche. Ma mai si era arrivati ad assistere a un intervento simile delle forze di sicurezza israeliane nella spianata delle Moschee, zona sacra per i musulmani, addirittura all’interno degli edifici di culto, con l’uso di proiettili di gomma, bombe soniche e lacrimogeni.

Una dimostrazione di forza per reprimere delle proteste ampiamente prevedibili che sembra voler puntare a esasperare gli animi, tanto più che siamo alla fine del mese di ramadan - un mese che amplifica ogni volta la reattività nelle piazze arabe - e in una città già scossa dalla questione dell’espulsione annunciata di alcune famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah. E come sempre, le tensioni a Gerusalemme, provocano il lancio di razzi da parte di Hamas dalla striscia di Gaza, innescando la usuale catena di allarmi aerei, evacuazioni, rappresaglie da parte dell’aviazione israeliana.

Ma a rendere queste violenze diverse dalla triste usuale litania di un conflitto dimenticato ma non risolto, vi è il contesto politico di entrambi gli schieramenti. Da parte palestinese, abbiamo il declino e la perdita di autorevolezza della leadership moderata legata ad al-Fatah, che in questi trent’anni di governo a capo dell’Autorità nazionale palestinese si è dimostrata tanto inefficiente quanto corrotta; mentre sull’altro fronte Hamas sembra incapace di uscire dalla logica perdente della violenza sterile che gli permette tuttavia il controllo di quell’inferno in terra che è Gaza.
Il risultato di questo stallo è il continuo rinvio delle elezioni politiche, che le violenze giustificherebbero ulteriormente, e la perdita di credibilità dei rappresentati di questo popolo.

Ma anche in Israele vi è chi soffia sul fuoco, e non si tratta solo dei soliti gruppi dell’ultradestra nazionalista o religiosa che sogna l’Israele biblico, con l’allontanamento di tutti i palestinesi. L’intero sistema politico israeliano sembra di fatto ostaggio del primo ministro Netanyahu, che non si rassegna al suo declino politico e, tanto meno, ad affrontare il giudizio per i reati che la magistratura israeliana gli contesta.

La brutalità esibita della repressione in uno dei luoghi più sacri per l’islam, l’enfasi ossessiva sulla sicurezza e sulle minacce, vere o immaginate, servono a questo: a impedire un governo guidato da altre forze politiche e a spingere Israele verso scelte sempre più radicali. In questo, Netanyahu è stato favorito dall’alleanza strategica con le monarchie del Golfo in funzione antiiraniana e dal sostegno totale e incondizionato di cui ha goduto negli anni della presidenza Trump. Risulta a tutti evidente come gli israeliani siano sempre più forti, mentre i palestinesi siano non solo sempre più fragili, ma anche sempre più lontani dall’interesse della comunità internazionale. La tentazione di sfruttare cinicamente questo vantaggio è tuttavia un pericolo che la democrazia israeliana deve riuscire a evitare di correre. Prima ancora per Israele che per i palestinesi.