Anna Pozzi
22 novembre 2021
@Avvenire.it
È morto fratel Jean-Pierre Schumacher, l’ultimo sopravvissuto al massacro avvenuto nel 1996 dei monaci trappisti del monastero di Tibhirine, in Algeria, rapiti e poi uccisi da militanti islamici, e in seguito beatificati nel 2018 a Orano, insieme ad altri dodici martiri d’Algeria. Quella tragica notte fratel Jean-Pierre scampò al sequestro perché era di servizio in portineria, in un edificio adiacente al monastero.
«Non volevamo essere martiri, piuttosto segni d’amore e di speranza». Se li ricordava così gli ultimi anni vissuti al monastero di Tibhirine, frère Jean-Pierre Schumacher, che con un altro monaco, Amedée, era sopravvissuto alla strage di sette suoi confratelli avvenuta nella primavera del 1996.
Ora se n’è andato pure lui, memoria vivente di quel massacro, ma soprattutto di quella presenza di “oranti tra gli oranti” che sono stati i trappisti in Algeria, anche negli anni bui del terrorismo jihadista. È deceduto all’età di 97 anni nel monastero di Midelt, in Marocco, unica presenza trappista rimasta da allora in Nordafrica. Continuando a testimoniare silenziosamente Gesù Cristo nella vita di tutti i giorni, in mezzo a una popolazione esclusivamente musulmana.

«La nostra presenza a Tibhirine - ci raccontava - era innanzitutto un segno di fedeltà al Vangelo, alla Chiesa e alla popolazione algerina. Il mio ricordo più bello? È proprio quello della nostra comunità: l’ufficio del mattino, i lavori in comune, ma soprattutto le relazioni fraterne. Sì, le relazioni fraterne...», ci diceva commuovendosi. «Ma anche quelle con i vicini - insisteva -. Non potevamo andarcene. Quando sono arrivato a Tibhirine nel 1964, c’è voluto un po’ di tempo per conoscerci reciprocamente. Poi, ci si sentiva come una famiglia».
Una famiglia che è stata brutalmente ferita. Perché il rapimento, avvenuto nella notte tra il 26 e il 27 marzo, e l’uccisione dei sette monaci, probabilmente in maggio, ha lasciato una lacerazione profonda non solo nella Chiesa d’Algeria, ma nella comunità di Tibhirine e in una parte della società algerina che non poteva immaginare che degli uomini di preghiera potessero venire barbaramente massacrati.
Frère Jean-Pierre se la ricordava benissimo quella notte: «Ero in portineria, fuori dalla clausura. Ho sentito dei rumori: pensavo fossero venuti a prendere le medicine, come era già capitato. Poi quando è tornato il silenzio, qualcuno ha bussato alla mia porta. Ho avuto un po’ paura, poi ho aperto. Era Amedée, che mi ha detto: “Hanno portato via i nostri fratelli. Siamo rimasti soli, io e teۚ».
Frère Jean-Pierre era tornato a parlare di quel momento anche alla vigilia della beatificazione dei suoi confratelli e degli altri 12 martiri d’Algeria, celebrata a Orano l’8 dicembre del 2018. Era la prima volta che tornava nel Paese dopo la strage del ’96 e i funerali. Anche a Orano, ricordava di quante volte la sua mente fosse tornata insistentemente su un versetto del Vangelo di Luca che dice: «Uno sarà preso e l’altro lasciato».