Nel bunker di Falcone e Borsellino: «Qui Palermo ritrova la memoria»

Condividi su

Sabato 21 maggio 2022
Roberto Puglisi
@Avvenire

 
Lo chiamano “il bunkerino” ed è lo spazio in cui sono stati ricostruiti gli uffici protetti dove si incontravano i due giudici. Ora è una tappa obbligata per chi vuole ricordare.

C’è un crocevia della memoria, a Palermo, nel cuore del Palazzo di giustizia, dove il tempo si è come fermato, lasciando spazio a una nostalgia buona che accarezza le ferite della separazione. Il suo nome è "Museo Falcone-Borsellino", ma tutti lo chiamano il bunkerino, come, in effetti, è noto. Lì, grazie alla giunta distrettuale dell’Associazione Nazionale Magistrati, da anni sono stati ricostruiti gli uffici protetti in cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino lavoravano, vibrando colpi mortali alla mafia, prima di essere uccisi.


La guida di quei luoghi benedetti dalla presenza affettuosa di tante persone è Giovanni Paparcuri, eroe sopravvissuto che fa parte di quella storia e che è stato fondamentale per assemblarne i pezzi. Paparcuri era con il consigliere istruttore Rocco Chinnici, l’inventore del pool antimafia, quando il giudice fu spazzato via dal tritolo mafioso, con altre vittime innocenti, il 29 luglio del 1983. Lui stesso rimase vivo per miracolo, riportando ferite gravissime. Guarì a fatica e fu scelto da Falcone e Borsellino come stretto collaboratore, addetto alla nascente informatizzazione dei dati in occasione del maxiprocesso. Le stragi di Capaci e di via D’Amelio furono per tutti una tragedia oltre ogni immaginazione. Per "Papa" – nomignolo affettuoso impartito dai magistrati – rappresentarono una ulteriore catastrofe, ma senza alcuna resa.

 

​Ora, l’uomo che è stato marchiato a sangue dalle cosche conduce i visitatori in giro per il bunkerino. «Faccio tutto per i giovani che, magari, non hanno le informazioni necessarie, per i bambini, perché la speranza si costruisce con loro – dice Paparcuri –. Vado anche nelle scuole, parlo negli incontri organizzati, è un’attività necessaria. Ricordo un ragazzino che faceva lo spavaldo e mi chiese di ascoltare la storia di Totò Riina, perché, secondo lui, era forte, perché era il capo dei capi... L’ho chiamato vicino a me, gli ho raccontato delle mie cicatrici e gli ho detto che gli eroi sono i dottori Falcone e Borsellino, non i boss. Si è commosso, mi ha abbracciato e si è scusato».