Il futuro ha bisogno di storie

Condividi su

Lidia Maggi, pastora battista, legge la Bibbia in maniera antropologica, laica. «Dobbiamo fare i conti con i vecchi codici con cui abbiamo letto la vita. E da lì partire per pensare i nuovi. Ma oggi viviamo la crisi della parola e l’insignificanza del dire»

di Luisa Pronzato per Corriere.it

Questa intervista è parte di una serie che declina, nel modo più largo possibile, il tema delle ri-Generazioni come è stato interpretato dalla settima edizione del Tempo delle Donne: storie di chi sperimenta nuovi equilibri. Tutte le puntate precedenti sono raggiungibili attraverso i link pubblicati qui sotto oppure nello Speciale ri-generazioni a questo link.

«Nei racconti biblici il futuro si apre nelle paludi», dice Lidia Maggi, teologa e biblista. «La Bibbia con le sue donne trasgressive è memoria di futuro, custode di una passione generativa che si ostina ad aprire brecce. Le donne, nella Bibbia , rappresentano una delle categorie più fragili, con potere limitato, come ci sentiamo noi tutte e tutti oggi rispetto alla pandemia, a qualcosa che non possiamo controllare. Aprono brecce muovendosi all’interno dei recinti patriarcali e danno a ogni generazione sterile le indicazioni per ritrovare il respiro generativo».

Lidia Maggi da sempre impegnata nel dialogo ecumenico e interreligioso, è una pastora battista. Vive a Dumenza, sul lago Maggiore, con il marito Angelo Reginato, anche lui pastore, in una casa grande dove ospitano persone in crisi o in ricerca. «Una casa, non un monastero o una chiesa, solo una casa», dice. «Un luogo laico dove poter sentire il respiro di Dio». Quello di Lidia Maggi è un ministero itinerante, nelle parrocchie cattoliche, nelle comunità riformate, in eventi culturali, nelle biblioteche e negli spazi laici.

È stata anche ospite, a settembre, al Tempo delle Donne, dove ha portato la sua idea di “rigenerazione” attraverso le Sacre Scritture.

«Leggo le scritture bibliche come narrazione antropologica», spiega. «Queste pagine antiche sono anche capolavori della letteratura, ci danno la possibilità di specchiarci o di entrare nella realtà attraverso sguardi altri. Per questo credo si possano leggere senza preoccuparsi di dire qualcosa su Dio, ma in maniera laica. Hanno influenzato la nostra cultura e soprattutto hanno da dire sull’abitare la vita e la storia, più che sul piano della fede. Come la letteratura e le favole hanno la forza della parola che la nostra mentalità scientifica ha scaricato. Nascono con un codice plurale, non offrono verità oggettive ma storie che si dischiudono attraverso la narrazione che ci libera dal pensiero omologato».


Lei parla di una trasgressività generativa.

«I padri e le madri della fede sono spesso segnati dall’infertilità: un paradosso. Sono proprio alcune donne che si ingegnano, con modi più o meno leciti, a uscire dalla sterilità. Sara, la matriarca, per avere il figlio che Dio aveva promesso ad Abramo lo fa giacere con la schiva egiziana, Agar. Tamar, nuora di Giuda, osa travestirsi da prostituta e con l’inganno si unisce al suocero. Le figlie di Lot, per continuare la genealogia, lo fanno ubriacare e si uniscono a lui. E non è solo la questione fisiologica che la Bibbia affronta. Allude a un generatività simbolica. In momenti sterili, come quelli in cui stiamo vivendo, il futuro va rinegoziato, continuamente. Per generare il nuovo occorre passione e creatività, anche eterodossa che la morale giudicherebbe negativa».

Le donne che lei cita, però, ubbidiscono all’imperativo patriarcale: fare figli...

«La condizione biologica diventa paradigma di qualcosa di più ampio. Queste donne, nella loro ambiguità, ci ricordano il principio di realtà: il futuro dobbiamo pensarlo a partire dalle condizioni del presente. In alternativa si rischia di presentare solo utopie, gravidanze isteriche che non generano nulla. Le loro storie aprono una breccia in una storia chiusa. Rompono la tradizione, le gabbie degli stereotipi. Come Sulamita, nel Cantico dei cantici . Qui la generatività non passa attraverso i frutti delle viscere. Sulamita ha comportamenti “maschili” e la sessualità da lei vissuta non è finalizzata alla procreazione. I due amanti fanno l’amore per il gusto dell’amore. Lei piccola, seni piccoli, nera, lo provoca. Lei fa proposte indecenti. La tradizione vorrebbe l’uomo cacciatore, ma qui è lei che lo insegue. Arriva a dire che Salomone ha mille vigne, ma la mia vigna è mia e la gestisco io. Sovverte i modelli del patriarcato all’interno del patriarcato. Mettendo in questione le prigioni culturali che si pensano come leggi naturali ci offre un’idea di libertà dai modelli. Anche quelli economici che pensavamo appartenessero alla nostra società. Nel caso del Cantico, come in tutta la Bibbia , queste attrici e attori si muovono in un luogo non ideale, ma fortemente segnato dal negativo e dalla violenza che non viene taciuta, anzi. La Scrittura la narra perché chi legge la riconosca e la elabori. Nel momento in cui la verbalizzi prendi una postura per affrontarla. La Bibbia ci insegna che il contesto negativo va guardato e raccontato. Come lo stupro di Dina da parte del fratello e poi usata come merce di scambio. La voce narrante ti costringe a guardarla... E ti ritrovi con questa storia che ti interroga».

Lei parla di una società che per riscoprire linguaggi generativi deve uscire dalla sterilità del lamento.

«Abbiamo la necessità di ripensare un futuro che sembrava andare in automatico. Certo eravamo consapevoli della crisi economica, sapevamo che i modelli di sviluppo stavano implodendo, ma era una consapevolezza detta e non incarnata, a volte neppure condivisa. Ora la pandemia ha acutizzato il divario economico, ma ha anche creato un sentire comune: la fragilità. La consapevolezza che non controlliamo il futuro perché basta un virus a mettere sotto scacco il mondo. Certo le analisi sono complesse ed è difficile leggere il disagio presente. Abbiamo parlato di voglia di cambiamento durante la prima ondata, ora è disillusa dalla consapevolezza che cambiare è più difficile. Incapaci di vivere il presente lo riempiamo, ma di parole vuote, omologate. Perché una gravidanza, anche non biologica, vada a buon fine ha bisogno di essere radicata nella storia che abitiamo. Noi pensiamo il futuro con categorie vecchie. Non possiamo fare diversamente. Oggi, però, dobbiamo fare i conti con la crisi della parola e l’insignificanza del dire. Abbiamo bisogno di rigenerare i tanti registri che abbiamo scordato. Il linguaggio poetico, quello allusivo, descrittivo, quello narrativo ci consegnano realtà che, pur stando nel conflitto, si dispiegano nei tempi lunghi della narrazione e gli intrighi si sciolgono. Recuperare uno sguardo poetico sulla vita non è un’operazione intellettuale, né da privilegiati. È un’operazione salva vita perché ci salva dal leggerla troppo in bianco e nero. Ci concede tutte le sfumature della complessità. Si tratta, per esempio, di dare voce alla singolarità delle storie che si muovono dietro a bollettini e statistiche. Come cambia il rapporto con la morte quando riusciamo a darle un nome? Un volto, una storia, una memoria, per esempio, ricostruiscono quei legami in cui il dolore travalica i numeri e le statistiche che non ci permettono di leggere le singolarità delle persone che quel dolore attraversano. Forse un modo per resistere è anche raccogliere queste storie custodirle e riconsegnarle».

Raccogliere storie: è un gesto generativo?

«Sì, ci restituisce le radici. Questo è un aspetto interessante del materiale biblico che potrebbe aiutarci a diventare rigenerativi nel consegnarci narrazioni meno frettolose. Parlavamo del tempo della gravidanza, è un tempo importante: noi pretendiamo di avere un futuro con soluzioni immediate, senza formazione, preparazione e confronto. Le parole e i gesti generativi arrivano da lunghi processi. La stessa Bibbia nasce a Babilonia, quando il popolo ha perso tutto, i luoghi, il tempio, la terra. Ha perso i suoi codici, deve ripensarsi. In una situazione di totale fragilità nasce l’esperienza più creativa: raccogliere e catalogare le storie. Certo c’erano anche prima, venivano trasmesse per via orale. In questo momento fragile, però, diventa un lavoro sistematico che dà vita a un altro modo di ripensarsi. La crisi è sempre un momento in cui, se non soccombi, generi nuove cose per abitare la casa, gestire il tempo, il rapporto con la vita e con la morte. Il rapporto con gli anziani, per fare un esempio contemporaneo: abbiamo capito che le Rsa non funzionano perché abbiamo disumanizzato la vecchiaia. Nel momento in cui si capisce che la salute non è solo biologica ma anche emotiva la cura diventa altro: prendersi cura delle persone è molto più della loro anatomia. E da quel concetto di cura possiamo passare a una cura più allargata. Intenderla come il modo per rafforzare la soggettività. Una categoria da applicare alle persone, al pianeta e alla nostra storia, un codice da cui partire per re-immaginare un altro modello di sviluppo».